Memoria vivente del modo di vivere di Gesù
Madre Verónica Mª
Madre Verónica Mª
Indice
“La Chiesa non può in nessun modo rinunciare alla vita consacrata,
perché essa esprime in modo eloquente la sua intima essenza sponsale”[2].
“Il mondo è in fiamme, desideri spegnerle? Le braccia del Crocifisso sono stese per trascinarti fino al suo cuore. Egli vuole la tua vita per regalarti la Sua. Il tuo Salvatore sta dinanzi a te con il cuore squarciato, Egli ha versato il suo Sangue per guadagnare il tuo cuore.
Il mondo è in fiamme, ma lassù in alto, al di sopra di tutte le fiamme, si innalza la Croce per estendere la risurrezione. Il mondo è in fiamme. Desideri spegnerle? Abbracciati a Cristo crocifisso. Dal cuore squarciato sgorga il Sangue del Redentore, esso spegne le fiamme di ogni inferno.
Lascia libero il tuo cuore a Dio, in esso si riverserà l’Amore redentore fino a inondare e rendere fecondi tutti i confini della terra.
Tu ascolti il gemere dell’umanità nel cuore di Cristo, ti commuove il dolore di ogni uomo e desideri abbracciare e curare le sue ferite più profonde. Senti il gemito dei feriti sui campi di battaglia? Senti la chiamata agonica dei moribondi?
Ti commuove il pianto degli uomini e vorresti stare al loro fianco, essere consolazione e alleviarli. Abbraccia il Crocifisso. Se sei sponsalmente unita a Lui, il suo Sangue è in te. Unita a Lui, sei presente con Lui e puoi soccorrere in Cristo qui e là. Nel potere della Croce puoi stare su tutti i fronti, in tutti i luoghi di afflizione e di speranza. Da tutte le parti porti il suo Amore misericordioso che riversa il suo preziosissimo Sangue, Sangue che lenisce, redime, santifica e salva.
Lo sguardo del Crocifisso è su di te e ti interroga: ‘Vuoi sigillare per sempre questa alleanza con me? Quale sarà la tua risposta?’. ‘Signore, dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna’”[3].
La risonanza che ebbe in me questo testo all’inizio della mia vita consacrata, l’esperienza vissuta da santa Teresa Benedetta della Croce e così espressa con il fuoco stesso dello Spirito, mi ha sigillato e mi accompagna lungo il cammino della sequela di Cristo. Mi sorprende ogni giorno di più il dono della vita consacrata vissuta in pienezza, la chiamata a vivere più da vicino e a rendere presente la “forma di vita che il Figlio di Dio assunse entrando nel mondo”[4].
Oggi mi sento felice di poter rendere grazie per il desiderio e lo stupore sempre più grandi destati dalla vita di tanti nostri fratelli e sorelle, che nel corso dei secoli hanno consegnato la loro vita ed oggi continuano a consegnarla alla causa del Signore nostro Gesù Cristo[5]. Perché? Per quella inconcepibile ricchezza, per quella inimmaginabile profondità di vita comunicata dalla Madre Chiesa ai suoi figli… Beati coloro che un bel giorno si lasciarono colpire, e si lasciano commuovere sempre di più![6].
Nella povertà di non sapermi esprimere continuo a fare mie le bellissime parole di Henri de Lubac:
La Chiesa è tutta intera in un solo santo. Se i miei occhi non sapessero riconoscerlo, sarebbe per la mia incapacità di guardare. La sua bellezza sarà sempre testimonianza della sua Fonte[7]: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”[8].
“La Chiesa ha come unica missione quella di rendere presente Gesù Cristo agli uomini. Ella deve annunciarlo, mostrarlo e darlo a tutti. […] Noi sappiamo che ella non può non compiere questa missione. Ella è e sarà sempre in tutta verità la Chiesa di Cristo, […] ma occorre che ciò che ella è in se stessa, lo sia anche nei suoi membri…”[9]. Gesù Cristo esteso e comunicato: “Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo[10]… Perché ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete, e mi avete dato da bere; ero straniero, e mi avete accolto; nudo e mi avete vestito; malato, e mi avete visitato; ero in carcere, e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato, e ti abbiamo dato da mangiare; o assetato, e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto; o nudo, e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”.
E il Re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli, i miei piccoli, l’avete fatto a Me.
Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”[11].
A più di cinquant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, molte delle sue affermazioni non hanno perso la loro validità o sono divenute addirittura più pungenti, in special modo la diagnosi secondo cui Dio appare come un esiliato dalla vita degli uomini e dalla creazione[12]. Il Concilio allertava della gravità di questo esilio perché “l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa”[13]. E laddove Dio viene ignorato, difficilmente si potrà comprendere quel gesto di inaudita libertà per il quale una persona, già consacrata nel battesimo, decida di consacrarsi più strettamente a Dio, per rendere presente il legame indissolubile che unisce Cristo alla sua sposa, la Chiesa[14].
Il mondo dimentico di Dio comprende i frutti della missione delle persone consacrate nell’assistenza alle necessità dei poveri, ma difficilmente comprenderà la loro consacrazione a Dio, testimonianza in mezzo al mondo della compassione di Cristo per un’umanità disorientata e del volere del Padre che nessuno si perda[15].
Solo a partire dalla fede si può conoscere il segreto della vocazione delle persone consacrate. Come si potrebbe cogliere senza fede il senso di una vita chiamata ad amare Dio con un cuore indiviso e con l’audace libertà di offrirsi completamente a Lui mediante un’esistenza che anela ad essere memoria vivente del modo di vivere di Gesù? E tuttavia, chi potrebbe fare una cosa simile, abbandonato alle sue sole forze? La vita delle persone consacrate sarebbe un’utopia senza l’assistenza dello Spirito Santo e la docilità a lui.
Spesso noi persone consacrate veniamo interpellate riguardo alla nostra consacrazione: “A che cosa serve la vostra vita? Sapete come sta il mondo? Vi rendete conto che tutto fa pensare che stiamo andando alla deriva? Conoscete le difficoltà dei giovani e la sofferenza che tanti vivono, sebbene mascherata in mille modi…?”. Certo che sappiamo e conosciamo tutto questo, perché le realtà sofferenti sono proprio le più presentate giorno dopo giorno alle persone consacrate. Un cuore che Dio separa per sé è un cuore destinato a straripare la tenerezza di Cristo e ad accogliere gli affanni, lo sconforto, il dolore, le lotte, le speranze e anche gli aneliti di ogni persona. Ogni sofferenza ci trapassa come una spada che duole nel più profondo.
E… cosa pensiamo noi di questo mondo? Anziché emettere una sentenza, lo amiamo. Noi consacrati amiamo e preghiamo per ogni figlio che ci è affidato con la speranza e l’impegno di rendere presenti le primizie del nuovo cielo e della terra nuova. Con la Madre Chiesa accogliamo i drammi dei nostri figli con un dolore che cammina con noi perché non è madre chi non sa piangere e farsi uno con la sofferenza delle persone che ama. Ma consegniamo noi stessi anche con la certezza che nessuna gioia materna è comparabile alla felicità di accendere la luce di Cristo nella notte dei figli, come scriveva santa Teresa Benedetta della Croce[16]. Quanto si trova nel cuore di Dio si trova nel cuore della Chiesa e, quindi, nel cuore delle persone consacrate.
Un passo del vangelo di san Giovanni racchiude in sé alcune chiavi senza le quali non si potrebbe comprendere la vita delle persone consacrate: Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’Agnello di Dio!”. E i suoi discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì ─ che significa Maestro ─, dove abiti?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli abitava e quel giorno rimasero con Lui; erano circa le quattro del pomeriggio[17].
Noi che abbiamo intrapreso un cammino di consacrazione impariamo da Giovanni a tenere gli occhi fissi sul Maestro così da non predicare noi stessi ma Gesù, il Signore. Di nuovo, cioè, senza stancarsi, come il testimone che spera sempre nella sua ricerca di raggiungere la verità, senza legarla alla sua persona e senza mai dimenticare la sete del proprio cuore. Guarda e dà testimonianza: sguardo e parola. Lo sguardo scopre; la parola svela e comunica. Scopre e indica l’Amore della sua vita. Lo sguardo è un gesto che diviene testimonianza per altri di chi sia Colui a cui Giovanni appartiene: l’Agnello di Dio. Giovanni guida i suoi discepoli verso Gesù e manifesta la mediazione che di generazione in generazione ha perpetuato la sequela nella vita della Chiesa.
Gesù, vedendo come i discepoli di Giovanni Battista lo seguono, si gira verso di loro e domanda: Cosa cercate? È la domanda che aiuta a svelare la sete che sente una persona chiamata alla consacrazione. Come scriveva Benedetto XVI, “siete per vocazione cercatori di Dio; a questa ricerca consacrate le migliori energie della vostra vita. […] Cercate il definitivo, cercate Dio, mantenete lo sguardo rivolto a Lui. […] Coltivate un orientamento escatologico: […] cercate ciò che rimane, ciò che non passa. Appassionati cercatori di Dio e testimoni di quanto abbiamo visto e incontrato, siamo inviati per offrire il dono del Vangelo”[18].
I due discepoli, sorpresi, senza quasi riuscire ad esprimerlo a parole, rispondono con un’altra domanda: Maestro, dove abiti? Vogliono non solo conoscere Gesù, ma rimanere con Lui. Affascinati da Gesù si sentono chiamati a seguirlo per imparare a vivere e a rimanere con Lui.
Venite e vedrete. Si tratta di un invito ad accompagnarlo, senza nessun programma, perché l’unica cosa importante è la persona di Gesù. Occorre mettersi in cammino con la vita intera, in docilità, e rimanere con Lui perché la vita è ormai impossibile da capire se non condividendo il suo cammino e il suo modo di vivere.
Erano circa le quattro del pomeriggio. Quei discepoli di Giovanni non poterono dimenticare l’ora in cui furono calamitati dalla bellezza, la verità e la bontà di Gesù; non si trattava semplicemente di perseguire una causa o un obiettivo impersonale, ma di un legame sponsale[19], insostituibile e incondizionato, con la persona e la missione di Cristo.
La consacrazione a Dio mediante i voti di castità, povertà e obbedienza è un dono di Dio alla Chiesa che ha il suo fondamento nel Signore, poiché rende presente la forma di vita che il Figlio di Dio assunse entrando nel mondo e che propose ai discepoli che lo seguivano[20]. La vita di Gesù diede origine, con il tempo, come a “un albero nel campo del Signore, meraviglioso e pieno di rami”[21], attraverso i quali si rende presente “Cristo in preghiera sul monte, o nel suo annuncio del Regno di Dio alle folle, sia quando risana i malati e gli infermi e converte al bene i peccatori, sia quando benedice i bambini e fa del bene a tutti, ma sempre obbedendo alla volontà del Padre che lo ha mandato”[22].
“La vita consacrata è una storia di amore appassionato per il Signore e per l’umanità”[23]. I consigli evangelici non possono avere altro fondamento che l’amore di Dio riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato[24]. E se il Concilio Vaticano II presenta il martirio come dono insigne e suprema prova di amore, di seguito indica come testimonianza speciale di amore la consacrazione attraverso la professione dei consigli evangelici, soprattutto quello della castità, “che il Signore propone nel Vangelo ai suoi discepoli”[25].
Alla persona consacrata viene svelata in Cristo la sua chiamata, la sua identità e missione. Ella risponde a una chiamata che è un invito a intraprendere un cammino di conformazione all’oblazione di Gesù sotto la guida dello Spirito Santo che purifica e libera[26] per configurarsi a Cristo vergine che, essendo solo del Padre, fu per tutti, a Cristo povero che scelse di non avere dove posare il capo, a Cristo obbediente al disegno di Dio fino alla morte per amore. Per questo, la vita delle persone consacrate è una testimonianza di totale appartenenza, donazione e obbedienza al disegno di Dio. E questa consacrazione, lungi dall’essere concepita come una rinuncia, viene abbracciata come il dono incomparabile mediante il quale Dio arricchisce la persona consacrata configurandola alla vita di Cristo.
La vocazione consacrata si esprime nella professione dei consigli evangelici. La vita consacrata è un innamoramento nei confronti dell’Umanità di Cristo povero, obbediente e vergine. Egli è l’Unto, il Consacrato, “il suo stesso essere di Figlio è il voto eterno e indissolubile al Padre.
Egli non è obbediente: il suo essere è l’obbedienza totale, e questa è per Lui la libertà eterna. Egli non è povero: il suo stesso essere è la povertà, giacché la sua ricchezza eterna consiste nel non possedere nulla che non sia del Padre e nel deporre ogni cosa ai piedi del Padre. Egli non è puro: il suo essere è la purezza, poiché in Lui non può esserci nulla che non scorra dall’inizio alla fine nella perfetta ed esclusiva fedeltà di amore al Padre; possedendo in sé la più alta fecondità. Il Figlio non ha solamente una missione: Egli è la missione del Padre. Egli non si appartiene: Egli appartiene al Padre”[27].
La vita della persona consacrata è apertura e accoglienza di una chiamata, con un cuore indiviso che si esprime nella verginità – nessuno all’infuori di Te -, con un cuore liberato che si esprime nella povertà e nel vivere senza nulla di proprio – nient’altro all’infuori di Te -, con un cuore docile che si esprime nell’obbedienza – non la mia volontà ma la Tua -.
La persona consacrata, per vivere la sua consacrazione, non ha altro Cammino che quello dell’Umanità di Cristo, né altra forza che l’unzione del suo Spirito che ci configura alla sua stessa forma di vita. La vita non appare, così, come un cammino eroico da trascinarsi affannosamente, ma come il frutto del potere infinito dello Spirito[28] che, abituatosi a vivere nella carne di Gesù[29], continua a riversarsi negli uomini e a rendere presenti gli aromi filiali del Figlio di Dio[30], il profumo di Cristo[31].
Il voto di castità non è una rinuncia all’amore; al contrario, esso rende il cuore capace di amare di più e più liberamente, di amare verginalmente a somiglianza di Cristo. Si tratta di un’altezza, ampiezza e profondità dell’amore che, lungi dall’essere una conquista, è frutto della grazia. È un amore che richiede una premura squisita nella relazione personale con Cristo sposo che colma il cuore e lo allarga affinché possa donarsi e amare tutti con gratuità.
Mediante il voto di povertà la persona consacrata aderisce di tutto cuore alla totale consegna di Cristo. Comprende che incontrando Lui ha trovato l’incomparabile tesoro nascosto e abbandona per amore ogni possesso e ogni impedimento per seguire Cristo con radicalità, poiché non desidera nessun’altra ricchezza all’infuori del suo Signore. Vuole vivere con semplicità e sobrietà, come visse Cristo che si fece povero per arricchirci[32]. Sperimenta giorno dopo giorno che è Dio ad avere cura di noi con la sua provvidenza amorosa.
Attraverso la professione dell’obbedienza la persona consacrata si consegna gioiosamente alla volontà di Dio che vuole condurla a pienezza. Desidera identificarsi a Cristo, il servo di Dio, e lasciarsi guidare dallo Spirito per scoprire il volere del Padre che le viene incontro attraverso il creato. Cerca di configurare tutta la sua vita conforme al sì incondizionato di Cristo con la disposizione di chi sceglie amorosamente il volere di Dio, che non violenta la sua creatura, ma le viene incontro per farle sempre del bene e associarla alla sua opera salvifica[33]; solo così si può dare un’obbedienza gioiosa e liberatrice. A somiglianza di Gesù vuole dire con la sua vita: “Eccomi, sono qui per fare la tua volontà”[34]. L’obbedienza, lungi dall’essere vista come un’alienazione, è libertà fortificata[35] per seguire il volere di Dio.
Il ‘sì’ della persona consacrata è, al contempo, dono di Dio e risposta all’eterna fedeltà di Cristo, dono di Dio e promessa di consacrare tutto l’essere e tutta l’esistenza per essere presenza in mezzo agli uomini dell’eterna fedeltà di Dio. E l’eterna fedeltà di Dio all’uomo ha un nome: Gesù Cristo. Per questo, la vita della persona consacrata, lungi dall’essere un lamento e un pianto amaro – come talvolta tende ad essere vista -, è espressione della letizia di un’esistenza che si sa certa di aver trovato il tesoro che permette di considerare ogni cosa come spazzatura[36] a confronto con il dono ricevuto, che fa che tutto si riempia di consistenza, senso, luce e pienezza.
“Alla vita consacrata è affidata la missione di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo”[37].
La morte e risurrezione di Cristo hanno reso possibile che il credente abbia già vita eterna, seppure ancora non possa sperimentarla in pienezza né in modo definitivo. Nel mezzo del pellegrinaggio verso il definitivo, la passione per Dio che la professione dei consigli evangelici deve essere è un segno innalzato in mezzo alla Chiesa mediante il quale si testimonia più palpabilmente che la vita eterna è già presente in mezzo al mondo e si prefigura la futura risurrezione con la sua gloria e i suoi beni, seppure ancor lungi dalla sua forma compiuta, ragione per cui non si cessa di essere associati nella vita presente al mistero dell’annientamento di Cristo sulla croce[38].
San Giovanni Paolo II ha espresso con profondità questa anticipazione commentando la frase di Gesù al giovane ricco: Avrai un tesoro nel cielo[39]. “Lo stesso Cristo, infatti, invitando nel Discorso della Montagna ad accumulare tesori nel cielo, aggiunse: Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. Queste parole indicano il carattere escatologico della vocazione cristiana e, ancor più, il carattere escatologico della vocazione che si realizza nell’ambito delle nozze spirituali con Cristo mediante la pratica dei consigli evangelici”[40].
Le persone consacrate sono chiamate ad essere un ritaglio della Gerusalemme celeste nella storia, nel tempo degli uomini, che è anche il tempo di Dio, il tempo che Dio si prende per condurre a pienezza le sue creature. I consacrati sono segno e realtà della Gerusalemme celeste perché non hanno altra ricchezza che il loro Dio, non hanno altro volere che quello del loro Dio e non hanno altro sposo che il loro Dio. In qualche modo, i consacrati anticipano il destino a cui tutta l’umanità è convocata.
L’Eucaristia, come “fonte e culmine di tutta la vita cristiana”[42], è il cuore della vita consacrata, è il sacramento della comunione nuziale tra Dio e l’uomo: “Dio vuole vivere corporalmente presente in noi”[43].
L’Eucaristia è il più compiuto degli abbracci salvatori che il Creatore abbia dato alla sua creatura, ‘bacio di risurrezione’ che configura, redime, santifica e salva. Nell’Eucaristia le persone consacrate abbracciano il loro Dio e l’Amore della loro vita: “Gesù Cristo, nostro vivere inseparabile”[44]. Esse riposano, rinfrancano e rinnovano le forze nell’Eucaristia. Non c’è decadimento nell’amore quando si vive in verità dell’Eucaristia. L’Eucaristia innesta nel mistero pasquale, introduce nel mistero dell’amore; lì la verginità trova alimento e luce per la sua consegna totale a Cristo; lì si assapora l’obbedienza di Cristo che si consegna e si versa per la vita del mondo; lì si trova la forza per la sequela radicale di Cristo obbediente, povero e casto e si invita a farsi pane spezzato per la vita del mondo[45]. La vita della persona consacrata, in questo modo, diviene presenza e prolungamento del mistero eucaristico.
Il corpo di Cristo, accolto, abbracciato e stretto a sé nel più intimo delle viscere le rende capaci di abbracciare con Lui l’umanità intera, di ascoltare e fare loro i gemiti dell’umanità e di partecipare anche alle sue gioie. “La partecipazione quotidiana al sacramento eucaristico – scriveva santa Teresa Benedetta della Croce – ci vince e va imprimendo in noi il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. Chi potrebbe partecipare all’Eucaristia senza essere afferrato dallo spirito di sacrificio, dal desiderio di consegnare la propria vita e la propria esistenza nella grande opera della Redenzione del Salvatore? Sì, consegnarsi in modo tale che, dandoti senza misura, non perdi nulla di te stessa. Consegnandoti, non perdi la tua natura di donna, ma la guadagni nella purezza più perfetta”[46].
L’intimità della preghiera fa gustare il dono della consacrazione e della sponsalità e spinge alla conversione continua.
L’amore esige di stare con la persona amata per apprendere vedendo il Maestro e ascoltando la sua voce. “Solo chi dorme sulle pagine del Vangelo strappa i suoi tesori”[47]: l’amore desidera contemplare come visse Gesù sulla terra, come si relazionava, come parlava e ascoltava, come camminava, come si ritirava a pregare perfino quando la folla lo cercava. Contemplare Gesù sulle strade di Nazareth, nel Cenacolo, nella passione; vedere con indescrivibile stupore la presenza radiosa del Risorto sulla nostra terra[48].
Una passione d’amore come la consacrazione richiede la frequentazione e l’intimità che, con cura e premura, sa mantenere nel cuore il mistero di una chiamata che coinvolge la vita intera. Urge stare con Gesù, rimanere con Lui, permanere in Lui. Le persone consacrate, nonostante la voragine da cui la vita può ritrovarsi avvolta per la scarsità di operai nella messe, devono custodire squisitamente la relazione intima con il Signore che permette di guardare le persone e gli avvenimenti a partire dai sentimenti e dal cuore di Cristo per testimoniare un amore che si trasforma in donazione.
Le persone consacrate hanno in Maria, con il suo fiat, la donna di fede[50], che sa accogliere il disegno di Dio in una continua azione di grazie, che proclama l’eterna fedeltà di Dio e sa custodire ogni cosa nel suo cuore. La Vergine, di docilità, ne sa perfino nei momenti in cui lo sconforto si ostina ad imporsi e, accanto al Figlio, illustra il cammino dell’oblazione totale, di fortezza dinanzi ai più grandi dolori, di fedeltà senza limiti[51], di servizio continuo, di attenzione ai bisogni degli altri, con un cuore sveglio che sa scoprire Dio nelle più piccole cose, con una fiducia inscalfibile, sebbene nella realtà si affacci lo sconforto.
Il dono della verginità di Maria anima le persone consacrate non solo a confidare nell’assoluta sovranità di Dio, che inaspettatamente può rendersi presente nella storia, ma anche a imparare da lei la sua disponibilità perseverante ed orante nell’umile ambito di Nazareth, nell’afflizione del Calvario e nella gioia della Risurrezione e della Pentecoste. Per questo, le persone consacrate, che in qualche modo continuano a rendere presente nella storia il fiat della Vergine di Nazareth, non possono far altro che unirsi al canto del Magnificat di Maria, che proclama la grandezza di Dio e manifesta l’allegria della creatura quando si lascia fare e arricchire dal suo Signore.
Nell’intimità con Cristo le persone consacrate accolgono il suo desiderio più profondo: che nessuno si perda, che tutti conoscano il dono di Dio[52]. Collaborano con la missione della Chiesa in molteplici modi secondo la ricchezza di carismi che lo Spirito, nel corso dei secoli, ha suscitato. Ma conviene sottolineare che “la stessa vita consacrata, sotto l’azione dello Spirito Santo, che è all’origine di ogni vocazione e di ogni carisma, diventa missione, come lo è stata tutta la vita di Gesù”[53]. La vita consacrata è “luce che annuncia il Regno di Dio con una libertà che non conosce ostacoli”[54].
Per i consacrati il mondo non è un campo di battaglia, ma campo di missione. I consacrati, a partire dalla propria esperienza di riscatto e guarigione, estendono la Salute di Cristo. La loro vita versata ai piedi del Signore è chiamata a divenire balsamo del Buon Samaritano che cura, lenisce, calma, rallegra… la vita degli uomini. La loro vita non è un’esistenza rinchiusa su se stessa; non è un’esistenza ‘ripiegata’, ma consegnata al Signore a favore dell’umanità. Nelle situazioni più svariate, la vita del consacrato addita il suo Signore, il sole che è l’oriente dell’esistenza umana.
La vita consacrata si realizza in seno alla Chiesa[55]. Non siamo nulla senza la maternità della Chiesa, per questo noi consacrati sentiamo l’urgente chiamata ad essere presenza ecclesiale: corpo di Cristo che renda presente il Risorto nella gioia dell’unità e della comunione perché il mondo creda.
“Guardate come si amano”[56], dicevano dei primi cristiani: “Sapranno che siete miei discepoli per l’amore che avete gli uni per gli altri”[57]. L’accoglienza dello Spirito crea la nostra comunione, ci introduce nella comunione trinitaria e ci unisce affinché siamo un solo corpo e abbiamo un cuore solo. Siamo coscienti che la nostra consacrazione non si compie se non nella comunione che il Signore costruisce, testimonianza di Dio che è comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Sebbene la comunione possa assumere forme diverse in relazione ai diversi carismi, il bene della Chiesa deve trovarsi al cuore dell’allegria dei consacrati e il dolore della Chiesa non potrà mai essere estraneo al cuore di una vita consacrata. L’amore porta a vegliare più per la comunione ecclesiale che per se stessi e per i propri interessi. Mai e poi mai la gioia del consacrato potrà darsi a scapito del dolore della Chiesa, perché il bene del corpo di Cristo è il suo bene, la gloria del corpo di Cristo è la sua gloria, la gioia del corpo di Cristo è la sua gioia e il dolore della Chiesa sarà il suo dolore.
L’unità deve essere conservata al di sopra di tutte le difficoltà e avversità. Scriveva sant’Ignazio di Antiochia: “Quando vi riunite con frequenza, le potenze di Satana vengono annientate, e la sua opera di rovina è distrutta dalla concordia della vostra fede”[58].
Spesso sentiamo dire che l’areopago moderno non è pronto per ascoltare il messaggio del Vangelo o che non vuole essere evangelizzato. Ma ci si potrebbe chiedere se fossero pronti i contemporanei di Gesù o se mostrassero l’inquietudine di conoscere il Vangelo o se aspettassero esplicitamente un tale annuncio.
È facile soccombere quando si sente che la fonte e il centro della nostra vita non sembra suscitare interesse né entusiasmo. E dinanzi a questo può assalirci la tentazione di edulcorare o snaturare il Vangelo. Guardare agli inizi del suo annuncio ci può aiutare a superare i possibili scoraggiamenti, perché gli apostoli erano solo in dodici per portare il Vangelo fino ai confini della terra, e quella prima Chiesa si vide immersa in un mondo ostile che faceva del martirio l’orizzonte dell’essere cristiano.
Noi con frequenza ci troviamo immersi in un mondo non sempre avverso, ma, almeno, di certo indifferente. La nostra società sembra sperimentare una dolce indifferenza verso il fatto religioso fino al punto che può succedere che degli atei non si dichiarino tali e che dei non credenti si confessino credenti a seconda della loro convenienza. A volte si propaga la sensazione che l’areopago moderno non sia particolarmente interessato alla religione, e soprattutto al cristianesimo che, d’altra parte, quasi tutti credono di conoscere.
San Paolo tuttavia ci direbbe – come fece nell’areopago[59] – che gli ateniesi erano un popolo religioso, il più rispettoso della divinità, giacché avevano innalzato un monumento ‘al Dio ignoto’. E di fronte all’annuncio della morte e risurrezione di Cristo, dissero: “Su questo ti ascolteremo un’altra volta”. Agli ateniesi, avidi di novità e di novellucce, Paolo espose il cuore della fede cristiana: il potere di Cristo risorto. Non si tirò indietro di fronte al rifiuto iniziale, alle beffe, al disprezzo e, a quanto pare, allo scarso successo del suo annuncio.
Il punto di partenza del discorso di Paolo è del tutto attuale. In tutte le culture, o meglio in ogni persona, c’è un monumento ‘al Dio ignoto’. La Chiesa, che è maestra di evangelizzazione, ha saputo piantarsi in tutte le epoche, nell’areopago di ogni cultura, per annunciare la Buona Notizia… Oggi la situazione non è diversa, in un mondo che considera il Vangelo come qualcosa di vecchio e ormai risaputo.
L’Apostolo di Cristo non grida agli ateniesi, al modo di un rimprovero: “Idolatri!”, ma cerca di giungere fin dentro al loro cuore, gettando ponti per rendere presente il Vangelo, senza innalzare muri. Ricordò loro che erano religiosi, il che è vero, perché il sussurro di Dio è presente nelle vibrazioni più profonde dell’essere umano, creatura di Dio. Nel più intimo di noi alita un ‘Dio ignoto’, freme la nostalgia del Creatore. A quelle vibrazioni profonde, e spesso non adeguatamente interpretate, occorre che giunga l’annuncio di Gesù risorto per coloro che lo sperano sebbene non lo sappiano.
Quando Gesù non riusciva a farsi capire, non cessava di guardare con amore[60], che è l’unica cosa capace di disarmare l’uomo e di toccare il suo cuore. D’altra parte, gli scettici, coloro che non hanno mai creduto o hanno perso ogni speranza, non hanno mai smesso di guardare a noi credenti per provocarci a dare testimonianza. Tanti oggi, come in altro tempo filosofi come Nietzsche, ci sfidano: “Io crederei nel vostro Dio se voi aveste i volti di persone salvate. Migliori canzoni dovrebbero cantarmi i cristiani perché io apprendessi a credere nel loro Redentore. Più gioiosi dovrebbero sembrarmi i discepoli di un tale Salvatore”[61].
Al fondo di questo rifiuto c’è per noi un invito a rendere credibile la nostra testimonianza, a vivere da salvati. È questa la sfida, e noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli[62]. È vero che la parola salvezza può scioccare e sorprendere; è una parola che sparisce nella misura in cui l’uomo vuole schivare la domanda sul senso della vita e fa tacere i clamori più profondi. Occorre liberarsi dagli stereotipi, come scriveva papa Francesco: “Non abbiate paura di andare a portare Cristo in ogni ambiente, fino alle periferie esistenziali, anche a chi sembra più lontano, più indifferente”[63] e non solo per dedicar loro del tempo, ma vita, consegna, cura, fino a portarli alla locanda della Chiesa, come il Buon Samaritano, Gesù, che è andato incontro all’uomo ferito e mezzo morto[64].
Gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore con molto coraggio[65]. C’è una storia che deve essere raccontata, manifestata, testimoniata: Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita, lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi[66]. Sì, gli uomini, sebbene non lo sappiano, sono più preparati di quanto pensino per ricevere questo annuncio, perché in ogni persona, talvolta dietro le apparenze e le realtà più semplici, si nascondono le grandi questioni a cui non scappa nessuno: “Perché ogni mattina affronto la vita perfino quando le difficoltà, come dei nuvoloni neri, sembrano stendere un’ombra sul presente e sul futuro? Vale la pena vivere quando non abbiamo qualcosa per cui valga la pena morire, per cui dare la vita?”. E questa domanda, che in tante occasioni non viene formulata esplicitamente, riceve un’implicita risposta attraverso il modo di vivere. “Non vi è oggi, infatti, cosa più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di conoscere il vero e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo dell’esistenza”[67]. Perché l’uomo contemporaneo soffre questo dramma: se la verità non esiste, egli, in fondo, non può nemmeno distinguere il bene dal male.
Dio ha posto nell’uomo creato a sua immagine e somiglianza delle viscere che anelano a Cristo, che non possono dimenticare né ignorare che nella sua carne vi è iscritta una memoria, una memoria di Cristo. E l’insoddisfazione, che non si placa per quanto l’uomo viva in uno straordinario benessere, come anche gli aneliti più profondamente autentici del cuore umano, ci parlano di questa memoria per la quale il nostro essere anela alla configurazione a Cristo, che l’uomo di certo non può raggiungere con le sue sole forze. Essa si raggiunge solo nell’apertura della libertà al dono che l’uomo è capace di riconoscere ed accogliere come l’anelito delle sue viscere. L’insoddisfazione e l’anelito ad un ‘ancora di più’ è mancanza di Gesù Cristo, e questi non può essere sostituito, nella vita dell’uomo, da nessun’altra realtà.
Amare coloro che ci sono stati affidati non può limitarsi a un pianto di impotenza, ma deve condurci a vivere come offerta martiriale la nostra vocazione e missione, che Paolo riassume nella sua Lettera a Timoteo: Fai memoria di Gesù Cristo, risorto dai morti[68].
In un momento cruciale della storia, lo Spirito per mezzo del Concilio Vaticano II rende presente, con nuove profondità, il mistero della morte e risurrezione di Cristo. Il Concilio continua ad essere una chiamata e un invito a tornare alla Fonte della Vita, a fare memoria di un messaggio irrevocabile: Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre[69], il Vangelo è lo stesso ieri ed oggi, e non c’è altro Vangelo che quello ricevuto fin dal principio dalla Chiesa e raccolto nella tradizione viva. Ed è anche nuovo e inedito, perché ogni giorno lo si vive creativamente nella storia sotto la grazia dello Spirito Santo.
E l’uomo è lo stesso ieri e oggi e per sempre. Non sarà una formula o una strategia a salvarci, ma una Persona, Cristo vivo, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi![70]. Non c’è niente da inventare, non c’è nessun altro Nome che possa salvarci… Ci troviamo davanti a un compito irrinunciabile!
Evangelizzare i giovani è un’urgenza perché il Vangelo è per tutti. Urge annunciare che Egli è la Via, la Verità e la Vita[71] a una gioventù disincantata che, sebbene non lo espliciti, attende il Vangelo, perché vuole veder fiorire nella sua terra la speranza, la Buona Notizia che, per suo stesso dinamismo, è gravida di futuro.
“Mai un tempo ha fatto sognare tanto i giovani, con le mille attrattive di una vita in cui tutto sembra possibile e lecito. Eppure, quanta insoddisfazione è presente, quante volte la ricerca di felicità, di realizzazione, finisce per imboccare strade che portano a paradisi artificiali”[72].
Papa Francesco, che sente i giovani con lo sguardo di amore di Gesù, non smette di riporre in loro la sua fiducia: “Oggi noi adulti corriamo il rischio di fare una lista di disastri, di difetti della gioventù del nostro tempo. Alcuni forse ci applaudiranno perché sembriamo esperti nell’individuare aspetti negativi e pericoli. Ma quale sarebbe il risultato di questo atteggiamento? Una distanza sempre maggiore, meno vicinanza, meno aiuto reciproco.
Lo sguardo lungimirante di chi è stato chiamato ad essere guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta. È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli.
Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani. Il cuore di ogni giovane deve pertanto essere considerato ‘terra sacra’, portatore di semi di vita divina, davanti al quale dobbiamo ‘toglierci i sandali’ per poterci avvicinare e approfondire il Mistero”[73].
Nel disorientamento che oggigiorno soffrono i giovani, credo che non si possa parlare di loro senza fare riferimento alla generazione dei loro genitori. La nostra società attuale non è di certo quella di 50 anni fa, è cambiata profondamente, l’humus cristiano ha perso vigore mentre la secolarizzazione è man mano progredita, fino al punto che la fede sembra ormai qualcosa di strano ed è diventato difficile persino comprendere i valori cristiani.
Io appartengo alla generazione nata nell’anno in cui si è concluso il Concilio Vaticano II. A quel tempo la nostra società europea, con maggiore o minore coerenza e profondità, si professava cristiana. La maggior parte di noi riceveva, almeno, un’educazione con valori cristiani in un paese con una tradizione e delle radici cattoliche. In coloro che ci precedevano vedevamo, generalmente, il rispetto, l’amore e l’obbedienza dovuta alla Chiesa. La famiglia era il luogo in cui la fede veniva trasmessa quasi spontaneamente, nella semplice convivenza di ogni giorno.
In materia di fede, però, l’automatismo ereditario non funziona; non si è cristiani per il fatto che i nostri genitori lo siano stati. La fede che si eredita, occorre abbracciarla per possederla. La fede che non mette radici, che lasciamo che si spenga, la fede che non è custodita né accolta va pian piano perdendosi, finché un bel giorno non resta altro che una ‘memoria vuota’.
Dopo il Concilio cominciò a crescere una ribellione dichiarata contro i genitori, gli educatori, insomma, contro qualunque forma di autorità considerata come nemica della libertà, con la pretesa di essere liberi senza obbedire, senza ascoltare, senza seguire coloro che potevano essere vere guide e veri maestri di vita. Si respirava una febbre di autonomia e di indipendenza, con l’illusione di sentirsi padroni di se stessi.
La cosiddetta ‘liberazione dai tabù’ ci allontanava poco a poco dai criteri morali tradizionali. Cercavamo di seppellire un passato etichettandolo come ormai inservibile e superato, oppressivo, contraddistinto da un linguaggio e una morale per noi obsoleti. Adducevamo che la religione fosse per i pochi che avevano ‘temperamento religioso’ ed eravamo tentati di voltare le spalle alla Chiesa perché ci sembrava troppo retrograda e troppo ostile al mondo. Tra i giovani si divulgava l’idea di Dio come di un ostacolo alla felicità e alla libertà, come se venisse a troncare le nostre strade, a frenare i nostri progetti.
Per la nostra generazione la Chiesa era una realtà che era lì, ma non determinava la nostra vita; la vedevamo come qualcosa d’altri tempi. E la fede non aveva un grande valore nelle nostre vite, laddove l’essere cristiani tocca il midollo e il cuore della vita. Eppure con il tempo si sperimenta che, quando tradiamo il Battesimo, il dono dell’Acqua viva finisce in un ‘battesimo di lacrime’.
Oggi, però, la situazione è ancora più grave. Non si tratta solo del fatto che l’humus cristiano abbia perso il suo vigore, purtroppo questo humus è ormai sconosciuto. L’attuale mondo giovanile è caratterizzato da due elementi fondamentali: la perdita del senso del mistero e la debolezza di una cultura priva di punti di riferimento veri e stabili.
Non ricevendo la trasmissione della fede, i giovani ignorano il suo contenuto, e così la Chiesa non può che essere, per loro, una realtà troppo distante. La religione non interessa, non dice loro nulla, ciò che si celebra li annoia perché ha ben poco a che vedere con la loro vita, con i loro interessi, e per questo non se ne lasciano interrogare. Non guardano con disprezzo gli ambienti di Chiesa, ma non vi hanno neanche mai sperimentato nessun fascino. Eppure sappiamo bene che, laddove si tace riguardo a Dio, si sente il freddo agghiacciante di non avere un Padre.
Si vede nei giovani la mancanza di un focolare, una crisi di figliolanza, sono “giovani orfani di strade sicure da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente”[74].
I genitori sono un riferimento fondamentale nella nostra vita; tuttavia, se questi mancano, a lungo andare i figli traballano. Spesso il figlio sente che i suoi genitori non sono accessibili e che non sono presenti nei momenti fondamentali, a volte perché la loro priorità è la carriera professionale, altre per ragioni di custodia, nel caso di genitori separati. Si accusa il fatto che vengono da famiglie separate, rotte a causa dell’aumento di separazioni, divorzi, successive unioni… che causano nei giovani sofferenze e crisi di identità.
Quando non ci si sente di nessuno, si è in balia del divenire della vita, come una barchetta abbandonata in mare aperto senza né timone, né vela. Allora si percepisce come ostile questa vita abbandonata alle onde delle circostanze, e non ci si rende conto della bellezza del mare, ma solo del pericolo, della minaccia e della sua potenzialità di morte.
Credo che il vangelo di Giovanni raccolga, in questo grido, il sentire dei giovani: Non ho nessuno[75]… È il grido di chi sperimenta una solitudine radicale in cui nessun uomo è in grado di vivere. Eppure c’è chi ce l’ha il coraggio di dire ad alta voce: “Non mi sento di nessuno, non ho nessuno, non ho nemmeno me stesso”.
Quando i giovani si avvicinano alla Chiesa, nel loro cuore non si trova anzitutto il dubbio: “Chi è Dio? Dio esiste?”, ma il dubbio sulla propria esistenza. Giovani sconfitti, che si lamentano di soffrire molto, che fanno troppa fatica ad andare avanti, che non possono fidarsi di nessuno.
Vale la pena vivere? Ha senso la mia vita? A chi interessa la mia vita? C’è qualcuno che mi ama? C’è qualcuno che mi possa aiutare a sapere chi sono, visto che perfino per me stesso sono un enigma? Perché mi alzo ogni mattina? Perché e per che cosa vivere? Perché esisto? Chi può salvarmi da questo abisso di nonsenso?
Nelle nuove generazioni affiora un urgente grido di S.O.S. Ognuno chiede aiuto innanzitutto per se stesso. Forse perché il loro vuoto, il loro dolore è troppo grande e li mantiene centrati su di sé. Si indovina nel loro sguardo sfuggente e stordito un’inquietudine e una solitudine palesi, prima ancora che essi le manifestino. Si percepisce nei loro volti un’angoscia nascosta, una chiamata muta, che non c’è nemmeno bisogno di esprimere. Le loro domande lasciano intravedere il fondo di esperienze schiaccianti, di un vuoto di valori, di delusioni per promesse incompiute. Ma si palpa anche che in quel fondo c’è una sete profonda di Dio e un desiderio di conoscere il vero volto dell’Amore.
Chi sono? A chi appartengo? Qual’è la mia origine e il mio destino? Non ci troviamo davanti ad una questione qualunque, ma alla questione fondante, davanti all’incapacità di trovare il centro dell’esistenza attorno al quale poter costruire la propria identità e appartenenza. E non si tratta di questioni riservate ai filosofi o a una cerchia di privilegiati, ma di domande radicate nel cuore dell’uomo.
Molti dei nostri contemporanei o perfino ragazzi in giovane età hanno sperimentato la vertigine di sentirsi precipitare da una grande altezza. Si sentono come quell’alpinista caduto sul fondo di un precipizio, gravemente ferito e assolutamente incapace di uscire da lì con le proprie forze. In tale situazione, tutto sembrerebbe indicare che sulla sua vita sia caduta una notte senza nessuna prospettiva dell’alba.
Chi si trova in un tale abisso ha un bisogno vitale che qualcuno ascolti il suo grido; che si faccia carico della sua vita, discenda fino al luogo in cui si trova, e vada a riscattarlo. Avendo toccato fondo, gli rimane una sola speranza: quella di ascoltare una voce che pronunciando il suo nome gli vada incontro, e di essere risollevato da una mano forte da cui niente né nessuno possa strapparlo via.
Esiste un punto in cui l’umano tutto intero diventa un grido che chiede riscatto, liberazione per poter continuare a vivere, o meglio, forse, per cominciare a vivere una vita nuova. Laddove noi pensavamo di essere stati abbandonati e che non ci fosse ormai nessuna possibilità di salvezza, si sperimenta il paradosso di scoprire, proprio in quella sofferenza, un luogo di incontro con Dio; così è stato e continua ad essere per molti cristiani.
I nostri giovani che si aprono a Dio, infatti, riconoscono l’abisso da cui sono salvati da Cristo e vivono questa memoria pieni di gratitudine, con un sentimento di consolazione e di desiderio di consegnare se stessi. Si mettono in cammino con la decisione irrevocabile di essere cristiani; così, la terra da tanto tempo incolta riceve il germe vivente della fede, ed essi diventano testimoni credibili per altri: “Cristo ha dato la vita per me, io voglio vivere per Colui che è morto e risorto per me. Io e te valiamo il prezzo del Sangue di Cristo”.
Saremo capaci di far sognare un giovane, nei cui occhi dovrebbe risplendere l’entusiasmo, la speranza, la passione per la vita e che vediamo, invece, indifferente, senza nessuna voglia di rischiare? “Un giovane non può essere scoraggiato, la sua caratteristica è sognare grandi cose, cercare orizzonti ampi, osare di più, saper accettare proposte impegnative e voler dare il meglio di sé”[76]. Oseremo mostrare altri sogni che questo mondo non offre?
Alcuni pomeriggi riceviamo nella nostra casa gruppi di giovani con i quali condividiamo testimonianze e inquietudini della vita, della fede. Tante volte ci guardano con volto stupito, come se fossimo appena sbarcate da un altro pianeta.
Qualche mese fa, in uno di questi incontri abbiamo chiesto loro:
─ Non avete mai conosciuto delle persone consacrate?
─ Sì, ‘inschermate’.
─ Come?! Cosa vuoi dire?!
─ Beh, sullo schermo. Mi sono informato su internet.
─ E cos’hai trovato? Cosa sapete di noi consacrati? Raccontateci.
─ Beh… se ne dice di ogni, e non sempre cose belle.
Uno dopo l’altro hanno cominciato a raccontarci quello che avevano trovato sui social. Sembrava che per il fatto di essersi informati su Google, con un semplice click, ci conoscessero di prima mano, anche se non ricordavano né chi avesse detto ciò che avevano trovato, né di dove fosse, né dove l’avesse visto:
─ I consacrati? Io, a dire il vero, che non sapevo neanche che esistessero, pensavo che si trattasse di una specie in via d’estinzione, qualcosa passato di moda… E in ogni caso, anche se esistessero, non avrebbero nulla a che fare con la mia vita! Non mi interessa il tipo di gente che parla di Gesù.
─ Io avevo sentito dire che eravate persone tristi, che vivevano una ‘vita eroica’, piena di rinuncia e sacrificio; insomma, un cammino infelice che ti priva di esperienze alle quali a me sembra impossibile rinunciare. Alla fin fine, come delle ‘sepolte vive’.
─ È proprio indispensabile scegliere una strada così radicale? Non vi dispiace dover fare tutte queste rinunce? Rinunciare ai vostri cari, a una famiglia, a un marito, a dei figli, a degli studi, ad avere libertà, a viaggiare…? Insomma, non vi dispiace dover rinunciare alla vostra realizzazione personale? Non si possono fare le stesse cose anche senza essere suora?
E altri hanno chiesto direttamente:
─ E siete costrette a rimanere qui per sempre? Se ti stanchi, non te ne puoi andare?
─ Prima di rispondervi – ha detto una sorella –, voglio farvi una domanda: cos’è quello che vi inquieta di più?
Rapidamente è intervenuto un giovane:
─ Quando si scarica la batteria del mio cellulare, o quando perdo il segnale internet.
─ Perché? – gli ha chiesto.
─ Semplice, perché allora mi perdo tutto quello che sta succedendo, rimango fuori dal mondo, come perso. In quei momenti devo uscire di corsa a cercare un caricatore o una rete wi-fi e la password per ricollegarmi, se no, non riesco a vivere! Rimanere senza batteria, quello sì che non mi deve succedere!
Lasciavamo scivolare lo sguardo su ciascuno di loro e ci sorprendeva costatare che si preoccupavano dei loro cellulari più che di loro stessi e che sapevano esattamente quanta batteria restasse sul loro cellulare, ma non si rendevano conto che la loro si svuota, che nel pieno della giovinezza la loro vita si sta spegnendo.
All’improvviso uno di loro, inorridito, si è lasciato scappare:
─ Come si fa a vivere senza il cellulare, senza internet, senza WhatsApp, senza Instagram, senza essere costantemente connessi ai social network…? E non vi annoia non conoscere altra gente?
Dal quel momento in poi, un grande scompiglio ha riempito il parlatorio. Quello che più li sorprendeva di noi era…: “Vivere senza internet?… Impossibile!”.
Vediamo giovani passivi che si isolano davanti ai loro schermi; si connettono al mondo virtuale, ma si sconnettono dalla realtà e da se stessi. Cercano di anestetizzare gli interrogativi più profondi con un bombardamento di informazioni, ma sono quasi del tutto privi di formazione. Soffrono per la confusione nel sentire, nel pensare, e lo esprimono apertamente: “Non so nulla, non vedo nulla, non so come sono…”. L’identità non è un dato né un numero di serie che venga dato, non è un’informazione che si possa cercare su internet[77].
Dinanzi alla bassa autostima dei giovani, con la paura di fondo di non essere amati, le reti offrono loro la possibilità di cammuffare comodamente la propria identità, e tante volte si vedono obbligati a mostrare un ‘falso io’ per sentirsi accettati, valorizzati. Solo loro sanno quanto devono soffrire e lottare per adeguarsi a degli standard irreali e irraggiungibili.
Non c’è dubbio, sono giovani iperconnessi, ma allo stesso tempo enormemente assetati di amicizia, di relazioni profonde, di incontri autentici. Passando del tempo con loro, poco a poco conosciamo la loro ricerca, il loro dolore, i loro desideri, i loro bisogni…
L’incontro di quel giorno, che è stato particolarmente animato, potrebbe essere un riflesso di quel mondo del digitale in cui essi si muovono. Il dialogo discorreva tra di loro e praticamente si toglievano la parola gli uni agli altri:
─ Senza internet, la mia vita sarebbe una noia mortale. Non vi sembra che le sorelle vivano su una nuvola, in un mondo un po’ irreale?
Una ragazza dall’altra parte della sala è saltata su:
─ Irreali e poco autentici sono i nostri profili sui social, che tutti noi ritocchiamo per mostrare l’immagine che vogliamo che gli altri vedano, e l’immagine reale ha molto poco a che vedere con quella che poi esibiamo nella ‘vetrina virtuale’. È una bella sfida cercare di ‘inventare se stessi’.
─ Io ho vissuto paragonandomi con gli altri, le loro vite mi sembravano perfette, fantastiche, comunque sempre migliori della mia. Finché, un bel giorno, ho letto: “Magari fossi così felice come il mio profilo Facebook”, e ho scoperto che il loro profilo, in realtà, era poco autentico quanto il mio.
─ Anche se, ad essere sinceri, siamo tutti presi dal sapere quanti likes ci danno, perché è una cosa che aiuta a superarti, a valorizzarti.
─ Io adoro farmi dei selfies e mandarli al maggior numero di contatti possibile; l’avrete sentito dire: “Mi si vede, ergo esisto”.
─ Non so se a qualcun altro è successo e può darmi una mano… Prima della pandemia avevo cominciato a uscire con un ragazzo che avevo conosciuto su internet. Sullo schermo ci andava strabene, ma adesso che abbiamo cominciato a vederci faccia a faccia non è come credevo… Quando sto con lui presta più attenzione al suo cellulare che a me, non parla, non condivide nulla. Appena ci separiamo non la smette di mandarmi dei baci con faccine sorridenti e cuoricini di tutte le forme e di tutti i colori… Ne ho fin troppo delle sue emoticon affettuose… Preferirei che mi facesse qualche gesto di affetto quando stiamo insieme.
─ L’altro giorno mi sono reso conto che a casa mia ci sono più schermi che stanze. Quando arriva la mia famiglia, ognuno si mette davanti al suo computer, e allora anch’io mi metto a chattare, per non restare da solo.
─ Non vi assilla la caterva di foto che vi arrivano ogni minuto: foto di cibi, foto in posa, foto di sguardi rivolti all’infinito, di ‘guarda che forte il posto in cui io sono venuto’…? Sembra che se non metti su delle foto è come se non vivessi niente… Che bisogno c’è che tutti sappiano quello che faccio e dove mi trovo? E se non pubblichi qualcosa all’istante, te lo rinfacciano. Ma io non ne posso più di sentirmi così controllata, di non avere la mia privacy.
─ A me succede il contrario, io seguo passo a passo la mia influencer preferita. So tutto quello che le piace, quello che fa e dice ogni giorno e cosa ne pensa riguardo a qualunque cosa. E in più lei adora che io la segua, abbiamo quasi un rapporto di amicizia profonda ─ ha detto una ragazza che era rimasta tutto l’incontro con lo sguardo fisso sul suo cellulare, che teneva mezzo nascosto nel suo zainetto ─.
─ Io ero una influencer, avevo molti followers… Più ne hai, meglio è! ─ ha detto una giovane molto bella in un mare di lacrime ─ e… non so se sapete come funziona quel mondo lì. Hanno cominciato ad invitarmi a delle feste, avevo vestiti delle migliori marche a mia disposizione, da usare quando ne avessi voglia; un sacco di gente mi ringraziava perché la mia vita li aiutava e volevano sapere cosa io pensassi, su qualunque tema: come mi vestivo, cosa mangiavo, dove viaggiavo. Mi sentivo obbligata a mandare una nuova foto ogni giorno e alla stessa ora, ovviamente con il sorriso stampato, come se fossi stata la felicità in persona… lo show deve continuare.
Avete idea di cosa voglia dire investire tutto quel tempo in qualcuno che non sei tu, ma che è solo apparenza? Eppure io mi sentivo vuota, con una vita così falsa, o meglio, ‘priva di vita’… più triste e sola impossibile! In fondo desideravo che qualcuno mi liberasse da quell’inferno. Un giorno mi sono decisa a sparire dai social e adesso non mi è per niente facile adattarmi alla realtà, sono pochissimi quelli che mi appoggiano e mi capiscono… Lasci le reti, e non sei più nessuno!
Una sorella è intervenuta:
─ Ascoltandovi mi sorprende che, paradossalmente, lo stesso mezzo che vi avvicina al mondo intero vi allontana dalla realtà. Parlate di solitudine nell’era dei duemila amici, dite che dietro a un semplice ‘personaggio perfetto’ c’è sempre una persona che piange. Dite che bisogna mettersi delle maschere per sentirsi amati, valorizzati… Insomma, quella che sembrava essere una via di scampo, quasi senza che tu te ne renda conto ti intrappola e fa di te l’ostaggio di reti invisibili.
Siccome voi giovani siete così sinceri, c’è qualcuno che abbia il coraggio di dire come vi sentite in quel mondo virtuale…? Tutti quanti conosciamo della gente, a volte molto vicina, che soffre moltissimo a causa di una dipendenza da internet…
─ Sì, io ho degli amici che ci stanno davvero male, perché sono diventati dipendenti dalla pornografia, o dai videogiochi, o da giochi di ruolo; delle mie amiche, con la faccenda dello shopping compulsivo, hanno avuto persino bisogno di un trattamento per cercare di uscirne… E dev’essere stradifficile.
─ È difficile, perché le notifiche visive e sonore ti assalgono a qualunque ora, ti perseguitano con video di ogni tipo, con immagini a volte degradanti… e alla fine un’immagine può fare più male di mille parole.
─ Sì, sì ─ affermava un baccano di voci ─, e dopo, anche se ci provi, è difficilissimo toglierti quelle immagini dalla memoria. Ti investono, ti bombardano, e la mente non la si può formattare come un computer. Internet ti lancia sempre a vedere e ad ascoltare qualcos’altro, non ti dirà mai: “Per oggi, basta così”.
─ Anch’io ho sofferto a causa delle reti. Mi hanno fatto cyberbulling: insulti, minacce, di tutto e di più! Alcuni nell’anonimato, dietro a una tastiera e a uno schermo, fanno i coraggiosi, ma quando te li trovi davanti di persona, i ‘leoni’ sono dei codardi… Mi hanno rovinato la vita!
─ Sì, è duro, ma siamo noi i primi ad esporci a ricevere dei commenti, siamo capaci di esporre la nostra intimità e di lasciarla lì alla portata di chiunque.
Una sorella ha concluso l’incontro con i giovani:
─ Si può anche essere cristiani di fuoco e usare internet. Avete sentito parlare di Carlo Acutis, il cosiddetto ‘santo dell’informatica’? Sui social diffondeva delle frasi che non potevano lasciarti indifferente: “Tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Era molto creativo: per esempio, ha fatto un progetto in cui si è occupato di fare una ricerca su 136 miracoli eucaristici in 20 paesi, e ha organizzato una mostra virtuale che ha fatto il giro del mondo.
La sua passione per la tecnologia e la sua fede hanno fatto sì che fosse conosciuto come il ‘cyberapostolo dell’Eucaristia’, e che fosse denominato ‘il primo influencer di Dio’, visto che utilizzava il potere di internet per portare la Sua Parola dappertutto.
Ancora una volta arriviamo, con i giovani di oggi, al punto cruciale: come evangelizzare le nuove generazioni, così assenti e così dipendenti dai mezzi virtuali? Come arrivare al loro cuore?
Aiutiamo i giovani affinché “lo splendore della gioventù non si spenga nell’oscurità di una stanza chiusa in cui l’unica finestra per guardare il mondo è quella del computer e dello Smartphone”[78]. Si tratta di entrare nell’areopago moderno, nell’ampio e complesso mondo virtuale. Che esista uno stile cristiano di presenza nel mondo digitale è una sfida che affrontiamo tutti insieme nella Chiesa. Grazie alla rete, la testimonianza cristiana può raggiungere le periferie esistenziali per annunciare il Vangelo e accendere i cuori di tanti con la luce e la speranza di Cristo.
Ma “internet non basta, la tecnologia non è sufficiente. Questo […] non vuol dire che la presenza della Chiesa nella rete sia inutile; al contrario, è indispensabile essere presenti, sempre con stile evangelico, in quello che per tanti, specie giovani, è diventato una sorta di ambiente di vita, per risvegliare le domande insopprimibili del cuore sul senso dell’esistenza, e indicare la via che porta a Colui che è la risposta, la Misericordia divina fatta carne, il Signore Gesù”[79]. Per la fragilità dei tempi in cui viviamo, abbiamo bisogno della presenza del Buon Samaritano, di una mano che rialza, di un abbraccio che perdona e salva, di uno sguardo che inonda di un amore infinito, paziente, indulgente, e che ti rimette in cammino[80].
Il ‘tu per tu’, il faccia a faccia con le persone non può essere sostituito dal ‘tu per tu’ del mondo digitale. Le relazioni digitali e virtuali non potranno mai sostituire le relazioni umane, né il mistero racchiuso nella tenerezza dell’incarnazione. Urge la presenza dell’amore incarnato, il balsamo del perdono, la tenerezza della compassione, la parola sincera di incoraggiamento, la misericordia della correzione, il sorriso che accarezza, perché la vita che Dio ci dona non è una salvezza appesa ‘nella nuvola’ in attesa di venire scaricata, né una nuova ‘applicazione’ da scoprire o un esercizio mentale frutto di tecniche di crescita personale. È un invito a far parte di una storia d’amore, di una storia di vita che vuole intrecciarsi con la nostra e mettere radici nella terra di ciascuno[81].
In un mondo freddo e disincantato, in cui le persone passano le une accanto alle altre come viandanti con lo sguardo distratto e il gesto impersonale, urge che l’amore prenda carne. Siamo in un’epoca che sembra voler smontare l’universo come un giocattolo che si tiene tra le mani; che ha scoperto gli spazi interplanetari, ma che a malapena fa attenzione alla distanza immensa che separa le persone tra di loro; abbiamo progettato ponti e viadotti giganteschi, ma non sappiamo come unire le rive che ci separano gli uni dagli altri.
In una società che non sa più che cosa sia la tenerezza, urge portare a tutti l’amore tenero e misericordioso di Gesù.
Al cuore del cristianesimo si trova l’incarnazione: Dio si fa uomo in Gesù di Nazareth. Gesù Cristo ha reso presente in mezzo alla storia il cuore di Dio. In Gesù Cristo ci è stata aperta l’intimità del Padre, l’ha esposta ai nostri occhi, ai nostri orecchi, al nostro tatto[82]. Dio incarnato in Gesù si lascia vedere, ascoltare, toccare. Perché Cristo non parla solo con le sue parole, parla con tutta la sua persona, con tutto il suo essere. Tutto ciò che Gesù è, è rivelazione di Dio, manifestazione del Padre.
Nel Vangelo si ripetono le scene in cui la folla dolente si accalcava attorno a Gesù. La sua presenza destava l’attenzione delle genti e molti lo seguivano, bisognosi di essere raggiunti dalla misericordia del Buon Pastore. E sebbene i discepoli cercassero di proteggere il Maestro, riuscivano ad arrivare fino a Lui e a toccare anche solo il lembo del suo mantello.
Oggi occorre rendere presente Cristo, e questa è missione fondamentale della vita consacrata. Non possiamo tenere per noi la felicità del dono che abbiamo ricevuto. Dobbiamo manifestare il dono non come chi possieda ogni cosa, ma come chi solo ha da offrire il segreto più profondo della sua gioia: il Signore Gesù.
Il Signore non ha altre labbra, altre parole, altre mani, altri piedi che i nostri per portare il suo amore fino ai confini della terra. Non ci è chiesto, nella vita consacrata, di fare nulla di diverso che essere in verità quello che Dio ha sognato per ciascuno di noi. Occorre vivere con autenticità l’esistenza intera, lasciarlo vivere in noi, ed è questa la sfida che il mondo ci lancia.
È necessario innamorarsi profondamente del volto, dei gesti e dei sentimenti dell’Amore incarnato per portare il Vangelo in tutto il mondo… “Tutto il nostro essere deve gridare il Vangelo sui tetti; tutta la nostra persona deve respirare Gesù, tutti i nostri atti, tutta la nostra vita, devono gridare che apparteniamo a Gesù, devono presentare l’immagine della vita evangelica, tutto il nostro essere dev’essere una predicazione vivente, un riflesso di Gesù, che gridi: ‘Gesù’, che faccia vedere Gesù, che la nostra esistenza rifulga come immagine di Gesù”[83].
Perché i cristiani, e in special modo i consacrati, devono essere “un messaggio vivente, anzi, in molti casi siamo l’unico Vangelo che gli uomini di oggi leggono ancora”[84]. La vita dei consacrati deve essere una specie di introduzione alla vita di fede, uno stimolo affinché i distratti, gli abbattuti, gli smarriti fissino il loro sguardo e il loro pensiero su Gesù.
Nel corso dei secoli si rinnova la stessa scena del vangelo di san Giovanni in cui un gruppo di greci si rivolge all’apostolo Filippo per dirgli: Vogliamo vedere Gesù[85]. Questa è la richiesta che tante generazioni hanno rivolto ai credenti: “Vogliamo vedere Gesù nella Chiesa di oggi; e poi ascolteremo le vostre parole”. C’è così tanta gente attorno a noi che non aprirà mai il Vangelo! Non leggeranno mai le pagine di Matteo, di Giovanni o di Luca, non leggeranno mai gli Atti degli apostoli né le loro Lettere… però guarderanno il nostro vivere e cercheranno di leggere Cristo attraverso la nostra vita[86].
Non abbiamo altra missione che quella di rendere presente Cristo in modo tale che tutti possano toccare la carne di Gesù Cristo nell’oggi della Chiesa, casa accesa che orienta coloro che pellegrinano, tempio del Dio vivente, pane spezzato e locanda samaritana. La vita consacrata, nella Chiesa, deve farsi compagna di viaggio degli uomini per annunciare loro la verità, la bellezza e la bontà che tante volte rimangono nascoste nelle viscere della creatura, che attende, assopita, che qualcuno la risvegli; perché Dio sempre cerca l’uomo come custode che non dorme né riposa[87], e nulla impedisce alla sua libertà di farsi presente su tutte le nostre strade, dove i consacrati dovranno essere presenza dell’amore, dell’accoglienza, del perdono e della vita di Gesù.
Amatevi perché il mondo creda[88]… E sebbene non mancheranno mai gli scandali e il buio dell’infedeltà, è urgente, forse oggi più che mai, che l’incontro con Gesù comporti apprezzare la bellezza del mosaico ecclesiale, formato da migliaia di piccole pietruzze. Contemplando il mosaico da vicino si può ammirare la bellezza di ogni singola pietra collocata al suo posto, ma potremo vedere ciò che esso esprime solo se lo guardiamo nella sua totalità. E dinanzi a tale bellezza, chi si chiederebbe quale sia l’importanza di ogni pietruzza se rimane in solitario, isolata?
La tessera di un mosaico non direbbe mai: “Io sono tutto, basto a me stessa…”. Il mistero del mosaico sta tutto nel fatto che non vi si percepiscono delle pietre individuali. Nessuno è venuto al mondo per caso; ognuno ha il suo posto riservato, perché facciamo parte di un mosaico già esistente e non spetta alla pietra cercare il suo posto, ma al Maestro d’opera.
La vita dei credenti si intreccia nella stretta comunione realizzata dallo Spirito Santo: ognuna è unica, nessuna è la copia di un’altra. Ogni pietruzza esprime l’infinita creatività dello Spirito: sono somiglianti in una magnifica diversità. Perfino la più piccola tessera è insostituibile e irripetibile, preziosa quanto le altre, e fa risaltare la bellezza e il valore delle altre. E quel gran numero di tessere, ognuna al suo posto, manifestano il volto di Cristo; tutte loro sono chiamate a rendere visibile Cristo risorto.
Nel mosaico ecclesiale si rendono visibili i prodigi che Dio compie nella fragilità. Questo dono si custodisce nell’umiltà: non ci sono chieste grandi imprese, né gesta complicate, ma semplicemente di lasciare che arda nella nostra piccolezza il fuoco dello Spirito che ci configura a Cristo e che tempera, armonizza e assembla le pietre vive.
Questa realtà fu eloquentemente descritta da Von Balthasar, allo spuntare della sua vocazione: “Tu non devi scegliere nulla, sei stato chiamato! Tu non dovrai servire, tu sarai preso a servizio. Non devi fare piani di sorta, sei solo una pietruzza in un mosaico preparato da tanto tempo. Tutto ciò che dovevo fare era solo lasciare ogni cosa e seguire, senza fare piani, senza il desiderio di sperimentare intuizioni particolari. Dovevo solo stare lì, per vedere a che cosa avrei dovuto servire”[89].
Ognuna di noi persone consacrate potremmo fare nostre queste parole, così veritiere, di Henri de Lubac [90], con il cuore traboccante di gratitudine:
La Chiesa è mia Madre perché mi ha dato la vita. La Chiesa è nostra Madre perché ci dà Cristo, ci rende cristiani; ci conserva e ci mantiene riuniti nel suo seno materno. La Chiesa è mia Madre perché non cessa di mantenermi e, per poco che io mi lasci fare, di farmi andare sempre più a fondo nella vita. E se in me la vita è ancora fragile e tremante, fuori di me me l’ho potuta contemplare con tutta la forza e la purezza del suo vigore. Cosa potrei sapere io di Gesù, che legami ci sarebbero tra di noi senza la Chiesa?
Ho ricevuto ogni cosa dalla Chiesa e nella Chiesa; ciò che io le dò non è altro che un’infima restituzione, estratta interamente dal tesoro che ella mi ha comunicato. Mi avvolge e mi oltrepassa, mi ha preceduto e mi sopravviverà. Non è cosa mia!
Amo la nostra Chiesa, nelle sue miserie ed umiliazioni, nella debolezza di ciascuno di noi, come nell’immenso reticolo delle sue santità nascoste. Amo la Chiesa degli umili, così vicini al Cristo: questa specie di esercito segreto, reclutato in ogni dove, che si tramanda anche in epoche di decadenza, che si consacra, che si sacrifica. Amo questa Chiesa che a volte si ritrova anche abbandonata da alcuni che da lei hanno ricevuto tutto, resi ciechi ai suoi doni.
Gli uomini possono mancare allo Spirito Santo: ma lo Spirito Santo mai e poi mai mancherà alla Chiesa. Ella sarà sempre il Sacramento di Gesù Cristo, tanto per la sua testimonianza come per i suoi poteri imperdibili. Ella ce Lo renderà sempre presente in verità. Attraverso i migliori dei suoi figli, non cesserà mai di riflettere la sua gloria. Quando sembra mostrare segni di stanchezza, una germinazione segreta le prepara nuove primavere, e nonostante tutti gli ostacoli che noi accumuliamo, i santi sempre risplenderanno.
Solo nella Chiesa di Cristo possiamo acquisire e saziare tutte le nostre dimensioni, perché siamo creature di Dio, e in essa si trovano tutte le fonti delle nostre possibilità. E, se per qualche strano mistero io abbandonassi la Chiesa, cercherei di ritornare da lei in ginocchio nell’ultimo angolo. Supplicherei che mi lasciassero almeno un cantuccio, perché fuori di essa non potrei nemmeno respirare[91].
Sì, sia lodata questa gran Madre, sulle cui ginocchia abbiamo imparato ogni cosa, e nella quale continuiamo ad imparare ogni cosa, giorno dopo giorno!
Tu, Chiesa, Madre vergine, che con vincoli avvolgi i tuoi figli senz’altro fine che quello di liberarli e di unirli in stretta comunione.
Tu, Chiesa, Madre feconda, che non cessi di darci, per l’azione dello Spirito Santo, nuovi fratelli.
Tu, Chiesa, Madre universale, che hai cura di ognuno allo stesso modo, dei semplici e dei grandi, degli ignoranti e dei saggi.
Tu, Chiesa, Madre della comunione, matrice nella cui unità tutti diveniamo uno in Cristo Gesù[92]. Tu raccogli, ad uno ad uno, i fili dell’unità che noi, figli tuoi, costantemente laceriamo.
Tu, Chiesa, Madre serva, che ti chini, umile, ai piedi dei tuoi figli per lavarli e riscattarli.
Tu, Chiesa, Madre misericordiosa, che abbracci fin nel più profondo e risollevi dalla polvere senza umiliare.
Tu, Chiesa, Madre amante, che salvi dall’abisso e, perfino nelle ombre, riconosci i figli che hai generato.
Tu, Chiesa, Madre paziente, che attendi instancabilmente i tuoi figli per lavarli, guarirli, redimerli, ricrearli, risuscitarli.
Tu, Chiesa, Madre sofferente, che porti una ferita in carne viva finché non vedi Cristo formato nei tuoi figli.
Tu, Chiesa, Madre dolorosa, che hai il cuore trafitto e assumi in te il peccato e le infermità dei tuoi figli.
Tu, Chiesa, Madre forte, che non temi di lasciarci passare attraverso la ‘morte’ per generarci ad una vita più alta, più degna, più santa.
Tu, Chiesa, Madre lungimirante, che smascheri le false illusioni e dissipi le tenebre in cui ci assopiamo e disperiamo.
Tu, Chiesa, Madre attenta, che vegli e ci proteggi, e ci liberi dal Nemico.
Tu, Chiesa, Madre prudente, che mostri la via della salvezza.
Tu, Chiesa, Madre liberatrice, che garantisci sempre il perdono, che leghi e che sciogli.
Tu, Chiesa, Madre orante, che sei sempre presente, rimanendo profondamente nascosta. Grazie a te la nostra notte è bagnata di luce.
Tu, Chiesa, Madre creatrice, che insegni ai tuoi figli ad essere docili alla forma umano-divina di amare.
Tu, Chiesa, Madre pura, che ci conservi in una fede sempre integra e ci restituisci l’innocenza.
Tu, Chiesa, Madre ardente, che non permetti che si spenga lo zelo per Gesù Cristo nei tuoi figli.
Tu, Chiesa, Madre gioiosa, che gioisci per la salvezza dei tuoi figli, in te il Signore della vita ci rende felici.
Tu, Chiesa, Madre umile, che magnifichi la grandezza di Dio nel rendere presente che tutto hai ricevuto gratuitamente e tutto ci consegni.
Tu, Chiesa, Madre di speranza, per mezzo tuo abbiamo in Lui la speranza della Vita.
Tu, Chiesa, Madre di salvezza, che ci mostri che “la gloria di Dio è l’uomo vivente”[93].
Tu, Chiesa, Madre dei viventi, che generi nella fede e nell’amore uomini viventi e ci confermi nella certezza che “la vita dell’uomo è vedere Dio”[94].
Tu, Chiesa, Madre eterna, che strabordi oltre i limiti del tempo per dilatare la nostra umanità secondo la misura stessa dell’eternità[95].
[1] “La vita consacrata costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli”: Giovanni Paolo II, Vita consecrata [VC] 22.
[2] VC 105.
[3] Cfr. Teresa Benedetta della Croce, «Esaltazione della Croce» (14.9.1939), in E. Ancilli, E. Stein, Vita, dottrina, testi inediti, Roma 1987, 143-144.
[4] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium [LG] 44.
[5] At 15, 26.
[6] Cfr. H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Brescia 1968, 16.
[7] Cfr. H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Brescia 1968, 15.
[8] Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 20, 7.
[9] H. de Lubac, Méditation sur l’Église, Parigi 1968, 175-176.
[10] Mt 28, 20.
[11] Mt 25, 34-40.
[12] Cfr. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes 7.
[13] Concilio Vaticano II, Gaudium et spes 36.
[14] Cfr. LG 44.
[15] Cfr. Mt 9, 36; Gv 6, 39; Mt 18, 14.
[16] Cfr. Teresa Benedetta della Croce, «Esaltazione della Croce» (14.9.1941), in Scritti spirituali, Pessano (MI), 463.
[17] Gv 1, 35-39.
[18] Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Generale dell’unione dei Superiori Generali (USG) e dell’unione internazionale delle Superiore Generali (UISG), 26.11.2010:
[19] Cfr. LG 44.
[20] Cfr. LG 43 e 44.
[21] LG 43.
[22] LG 46.
[23] Francesco, Vultum Dei quaerere 9.
[24] Rm 5, 5; cfr. LG 42 e 44.
[25] LG 42.
[26] Cfr. LG 46.
[27] H. U. von Balthasar, Vocación. Origen de la vida consagrada, Madrid 2015, 12; 15.
[28] Cfr. LG 44.
[29] Cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie III, 17, 1.
[30] Cfr. J. J. Ayán, «La carne gloriosa de Jesucristo y la unidad de la economía salvífica», Revista española de Teología 60/2-4 (2000), 363; Id, Para mi gloria los he creado, La Aguilera 2016, 185.
[31] Cfr. 2 Cor 2, 15.
[32] Cfr. 2 Cor 8, 9.
[33] Cfr. LG 43.
[34] Cfr. Eb 10, 5-7.
[35] Cfr. LG 43.
[36] Cfr. Fil 3, 8.
[37] VC 16.
[38] Cfr. LG 44; Giovanni Paolo II, Redemptionis donum 10.
[39] Mt 19, 21.
[40] Giovanni Paolo II, Redemptionis donum 5.
[41] Cfr. LG 11 e 45.
[42] LG 11.
[43] H. U. von Balthasar, Il cuore del mondo, Casale Monferrato 1994, 98.
[44] Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini III, 2.
[45] Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 81 e 88; Francesco, Vultum Dei quaerere 22.
[46] Cfr. Teresa Benedetta della Croce, Il mistero del Natale, Brescia 2010, 42-43; cfr. Id, «Los tres Reyes Magos», in Obras completas V, Burgos 2004, 668.
[47] A. Orbe, Parábolas evangélicas, Madrid 1972, Prólogo.
[48] Cfr. H. U. von Balthasar, «La preghiera contemplativa», in Nella preghiera di Dio, Milano 1997, 86.
[49] Cfr. LG 46.
[50] Cfr. Francesco, Evangelii gaudium 287.
[51] Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptoris Mater 46.
[52] Cfr. Gv 6, 39; Mt 18, 14; Gv 4, 10.
[53] VC 72.
[54] Paolo VI, Evangelica testificatio 3.
[55] Cfr. Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, Direttive sulla formazione negli istituti religiosi, 19:
[56] Tertulliano, Apologetico 39.
[57] Cfr. Gv 13, 35.
[58] Sant’Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini XIII, 1.
[59] At 17, 19-33.
[60] Cfr. Mc 10, 21.
[61] Cfr. F. Nietzsche, «Così parlò Zarathustra», in Opere di Friedrich Nietzsche VI, Milano 2019, 109.
[62] 1 Gv 3, 14.
[63] Francesco, Christus vivit 177.
[64] Cfr. Lc 10, 29-37.
[65] At 4, 33.
[66] 1 Gv 1, 1-3.
[67] Giovanni Paolo II, Fides et ratio 102.
[68] 2 Tm 2, 8.
[69] Eb 13, 8.
[70] Mt 28, 20.
[71] Cfr. Gv 14, 6.
[72] Benedetto XVI, Lettera al vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino in occasione dell’»anno clariano»:
[73] Francesco, Christus vivit 66-67.
[74] Francesco, Udienza generale 28.1.2015:
[75] Gv 5, 7.
[76] Francesco, Christus vivit 15.
[77] Cfr. Francesco, Videomessaggio ai partecipanti al III Incontro Mondiale dei Giovani scholas, 29.10-1.11.2018:
[78] Francesco, Messaggio per la XXXIII Giornata Mondiale della Gioventù 2018:
[79] Francesco, Discorso ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio dei Laici 7.12.2007:
[80] Cfr. Francesco, Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Città del Vaticano-Milano 2016, 31.
[81] Cfr. Francesco, Christus vivit 252.
[82] Cfr. J. Ratzinger, «Einführung in das Christentum», in Gesammelte Schriften IV, Freiburg im Breisgau 2014, 67-68.
[83] Charles de Foucauld, «L’esprit de Jésus : Méditations et explications de l’Évangile» (1896-1915), in Œuvres spirituelles du père Charles de Foucauld. VIII, 395.
[84] Benedetto XVI, Omelia Santa Messa, benedizione e imposizione delle ceneri 9.3.2011:
[85] Gv 12, 21.
[86] Cfr. L. J. Suenens, Le chrétien au seuil des temps nouveaux, 1997.
[87] Cfr. Sal 121, 3.
[88] Cfr. Gv 13, 34; 17, 21.
[89] AA.VV., ¿Por qué me hice sacerdote?, Salamanca 1961, 13-15.
[90] Cfr. H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Brescia 1968, 15-16 ; 20; Id, Entretien autour de Vatican II, Parigi 1985, 104; Id, Méditation sur l’Église, Parigi 1968, 187 ; 195; cfr. Y. M. Congar, La France catholique, 1967.
[91] Cfr. G. Bernanos, Nous autres Français, Parigi 1939, 115.
[92] Gal 3, 28.
[93] Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 20, 7.
[94] Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 20, 7.
[95] Cfr. H. de Lubac, Méditation sur l’Église, Parigi 1968, 217-220.